Di Andrea Tucci,
Purtroppo, 50 anni dopo, la guerra in Libano è ancora in corso. La guerra sono gli aerei e i droni israeliani che sorvolano costantemente i loro cieli, i missili lanciati dal Libano meridionale verso Israele, gli scontri tra clan libanesi e le nuove autorità siriane al confine tra i due Paesi, le armi in ogni comunità, ogni clan, ogni quartiere, ogni famiglia. La sensazione di non essere in pace e che il punto di svolta negativo possa verificarsi in qualsiasi momento.
La guerra in Libano ha avuto diverse dimensioni, e merita di essere affrontata in modo approfondito. La più ovvia, e paradossalmente la più semplice, è quella geopolitica. La loro guerra era la guerra degli altri: siriani, israeliani, palestinesi o americani. Il Libano non conoscerà mai la pace finché sarà teatro di conflitti regionali, come lo è stato solo pochi mesi fa tra Israele e Iran, e non potrà esserci pace finché una parte, creata, armata e sostenuta da una potenza straniera, metterà in discussione il diritto esclusivo dello Stato all'uso legittimo della forza.
Certamente dobbiamo pensare al Libano nel suo contesto regionale. Questo non significa in alcun modo che l'inevitabilità della storia e della geografia condanni questo paese ad essere una cassa di risonanza per i conflitti regionali, ma non significa nemmeno che il Libano possa improvvisamente diventare un'isola e che ciò che accade a Gaza, in Cisgiordania, in Siria o nel Golfo non li riguardi da vicino. C'è un equilibrio da trovare. C'è una situazione che non abbiamo il diritto di ignorare: il Libano vive sotto una forma di tutela israelo-americana. Finché sarà così, i libanesi non solo saranno sovrani del loro paese, ma soprattutto non potranno immaginare di costruire una pace duratura, non solo con Israele, ma anche con se stessi.
Esiste anche una dimensione politico-socio-confessionale. La guerra è avvenuta anche a causa di una serie di fattori interni. In questo caso, il disarmo di Hezbollah deve essere il punto di partenza della discussione, ma non può essere anche il punto di arrivo. Costruire la pace richiederà, in ogni caso, una profonda revisione del loro modello politico, sociale e confessionale. I cristiani possono continuare a essere sovrarappresentati nelle istituzioni in relazione al loro peso demografico? I palestinesi, che vivono in Libano da decenni, dovrebbero essere trattati per sempre come sub-cittadini? Le evidenti disuguaglianze tra libanesi e tra i territori dovrebbero essere in parte corrette dallo Stato? Tutte queste domande, e molte altre ancora, necessitano di risposta. La pace richiede la formulazione di un nuovo contratto sociale tra i libanesi da un lato e tra i libanesi e lo Stato dall'altro. Devono inventare un nuovo modello di cittadinanza, che vada oltre le appartenenze comunitarie, per consentire il loro delicato e naturale rapporto con l'alterità.
Un'altra dimensione, la più sottile, è che non vivono insieme, sono un tutt'uno. Papa Francesco ha costantemente sostenuto il Libano come esempio di una terra religiosa in cui diverse comunità convivono in uno spirito di fratellanza. La pluralità è una componente dominante del loro DNA, assieme alla loro aspirazione alla libertà, ma la geopolitica e la politica la strumentalizzano. Certamente il Libano deve essere uno Stato prima di essere una terra in cui diverse comunità convivono.